Il termine fakir, da cui l’italiano fachiro, ci richiama alla mente strani personaggi che mangiano i coltelli o dormono sui chiodi. In realtà il popolo che porta quel nome non corrisponde a questo stereotipo diffusosi dalle nostre parti. Fakir è una parola araba che significa povero, ed è il nome di un popolo del Bengala, la regione al confine tra India e Bangladesh.
Nella loro storia si possono rintracciare grandi musicisti, poeti e filosofi, tra cui svetta Lalun Fakir, che influenzò anche il grande poeta indiano Tagore.
Vivono nelle loro capanne di fango sostentandosi con l’agricoltura e la musica. Coltivano i loro campi di lenticchie, riso, patate e verdure, vivono in capanne di fango, ma ogni tanto i mariti con i figli partono per andare a portare la loro cultura lontano, col ballo e con la musica, mentre le donne provvedono ad accudire i bambini di tutti rimasti nel villaggio.
Nelle loro esibizioni cantano e ballano sul ritmo della nota emessa dal loro strumento musicale più importante: l’ektara, una scatola di legno vuota al cui fondo è fissata una corda che viene fatta vibrare con un solo dito tra due asticelle premute o allentate dalla stessa mano
Fakir non si nasce, ma si diventa, attraverso una pratica interiore molto dura, che comprende anche l’invito a non disperdere il seme, e ad imparare a usare il potere della sua energia.
Sono musulmani, eredi della tradizione sufi, e danno più importanza al marifat che alla sharìa: la pratica interiore di purificazione (marifat appunto), il cui fine è quello di arrivare ad amare ogni essere umano, sia amico che nemico, vale per loro molto di più della pratica esterna di obbedienza a riti e leggi (la sharìa).
Per loro ogni essere umano è dimora di energia divina e come tale è da rispettare se non venerare. Andare quindi a visitare i Fakir non significa andare a trovare eroi masochisti che mangiano corpi contundenti, ma uomini pacifisti pronti ad accogliere per condividere la loro cultura che ancora sopravvive.
domenica 4 febbraio 2007
I Fakir del Bengala
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